di Alessandro Mainini
Quando si parla dei The Dangerous Summer la prima, l’unica cosa che conta per davvero è che possiamo ritenerci fortunati ad averli di nuovo fra noi, dopo tutte le vicissitudini della loro storia, dopo il breakup, dopo i problemi con Cody Payne. La musica viene dopo, ma solo perché la musica che è venuta prima cancella qualsiasi necessità di dimostrare nulla al mondo: quando pubblichi un album generazionale come Reach for the Sun, dopo puoi permetterti qualsiasi cosa.
Il ritorno dei The Dangerous Summer ha coinciso con un album, il self-titled di inizio 2018, talmente intenso da lasciare sorpresi anche i fan della prima ora. Senza azzardare confronti non necessari fra i due dischi, entrambi i lavori possono tranquillamente fregiarsi del titolo di opus magnum nella discografia del gruppo del Maryland. A solo un anno di distanza AJ Perdomo è tornato in studio, e ha preso una delle decisioni più inaspettate: Mother Nature, il quinto album dei The Dangerous Summer nonché quinto album su Hopeless Records, è stato infatti prodotto presso i Panda Studios da Sam Pura, il controverso artefice del successo dei The Story So Far.
La mano del produttore è palese fin dal primo singolo uscito alcuni mesi or sono. Where Were You When the Sky Opened Up contiene tutte le caratteristiche tecniche che si ritrovano poi sull’intero disco. Una produzione iperpatinata, i vocals rauchi e graffiati di AJ che diventano magicamente melodici e puliti, l’aggiunta di svariati layer elettronici qua e là nelle canzoni… eppure questi cambiamenti potenzialmente temibili fanno trovare alla band una dimensione tutta nuova ma perfettamente propria, si adattano allo stile e al mood di sempre dei The Dangerous Summer così come i The Dangerous Summer si adattano a loro. Abbiamo una band completamente nuova, ma fedele a sé stessa fino all’osso.
Where Were You When the Sky Opened Up è un vero anthem. Tra i testi supermalinconici e il ritornello più epico dell’album, è un pezzo trascinante che riassume alla perfezione l’anima nostalgica del disco e quella più sognante. È accompagnata da un video fantastico da guardare ogni giorno per mesi; gli angloamericani hanno trovato comunque il modo di indignarsi elencando una serie di crimini che le immagini istigherebbero a commettere: guida sotto l’effetto di stupefacenti, uso di droghe e alcol, inquinamento ambientale tramite dispersione di ceneri nell’acqua, violazione di proprietà privata… forse un motivo in più per cui questo video ha quel fascino calamitante.
Se dovessimo però estrapolare tre pezzi chiave per capire appieno Mother Nature, la scelta non potrebbe che ricadere sulla doppietta Blind Ambition – Virginia e su Standing Over/Slow Down. I primi due pezzi vanno a braccetto per una serie di similarità strutturali e tematiche: i ritornelli sono ripetitivi (“It’s what’s in my heart again” e “Let me know you’re holding on” sono ripetute rispettivamente 4 e 3 volte) ma risultano efficaci, tanto più che sono accompagnati dai due migliori riff di chitarra dell’album, degni di Infinite (ultima canzone del self-titled); i testi megamalinconici anelano al passato, riflettono esperienze di vita che hanno segnato gli ultimi anni turbolenti per AJ, fra la nascita della figlia Luna, la fine della band, il trasferimento all’idealizzata e rimpianta Los Angeles per motivi lavorativi, la separazione dalla compagna e dalla figlia Luna e il loro ricongiungimento –sono testi importanti che una certa fetta della popolazione, soprattutto quella che ha varcato la soglia dei 25 anni, sentirà estremamente personali.
“You woke me up / I didn’t know I’d fallen back to sleep / ‘Cause you were alive inside my dreams.”
Il finale di Virginia è probabilmente il momento più intenso del disco, un passaggio catartico che sfocia in Standing Over/Slow Down. Come fa capire lo slash nel titolo, è una canzone composta da due momenti, quasi due canzoni diverse, con un cambio di passo centrale che ne fa la traccia più sorprendente di Mother Nature. Una sorta di ballad acustica che si trasforma in una ballad elettronicheggiante per ascoltatori presi male, per un totale di quasi 6 minuti da ascoltare a piccole ma costanti dosi, ennesimo esempio dell’incredibile metamorfosi che i The Dangerous Summer hanno portato a brillante compimento sull’album.
Chi volesse ricercare il tipico sound sviluppato dalla band nei lavori precedenti troverà il proprio alveo sicuro in Way Down. È la canzone più “emo” e la più urlata dell’album, con i vocals ruvidi e graffianti di AJ che tornano a sprigionare tutta la propria potenza per un’unica volta mentre raccontano una storia di autocommiserazione dettata dalle tribolazioni descritte sopra che hanno marcato il recente passato dell’artista: “When I fall, I want to fall way down / And when I drown, I want to drown to death”. Epica l’apertura della canzone, con un colpo di rullante che fa capire che aria tirerà per i successivi tre minuti e richiama subito all’attenzione dopo che la mente ha divagato per tutto l’arco di Bring Me Back to Life.
Quest’ultima è una canzone che non esplode mai, resta quasi monocorde per tutta la sua durata, ma il suo sound supernostalgico ci fa cadere in una sorta di trance mistica fatta di colori grigini e tenui, da primissimo mattino di inizio estate. Tutto il contrario di It Is Real, l’ennesima sorpresa che i The Dangerous Summer ci riservano su questo disco. Un effetto sonoro “8 bit” ci introduce a un pezzo essenzialmente pop rock, quasi allegro andante che maschera un testo incentrato sulla visione disillusa del mondo della musica e del ruolo che il gruppo può ancora giocare al suo interno. AJ dubita di sé stesso, della scelta di riunire la band e della effettiva possibilità di riuscire a creare una connessione con i fan attraverso le proprie canzoni. Vale la pena di continuare a inseguire questo fuoco che brucia dentro?, si chiede l’artista. La risposta è sì, perché “I said it all / And I meant almost every single word of it / It’s true, it is honest / This is something I can’t explain at all / It is real”.
Il disco si spegne un pochino verso il finale, a differenza degli altri album della band che restavano su livelli pazzeschi dalla prima all’ultima nota. Violent Red, Mother Nature e Consequence of Living sono pezzi che passano abbastanza inosservati in mezzo a tutto questo ben di Dio, anche se il minuto finale della title track raddrizza le sorti della traccia con un grande cambio di passo e l’irruzione delle chitarre distorte. Menzione a parte merita Better Light, un curioso esperimento per una band come i The Dangerous Summer, dove AJ canta una dichiarazione d’amore con ogni tipo di effetto sui vocals in mezzo a melodie eteree e computerizzate.
I The Dangerous Summer resteranno probabilmente sempre una band adorata in modo quasi fanatico da una piccola nicchia di pubblico, e quest’album, pur con la sua spinta più “pop” e levigato dagli spigoli e dal ruvido che possono tenere lontani alcuni ascoltatori più abituati alle produzioni lisce e mainstream, non servirà a far fare il boom di pubblico al gruppo. Mother Nature però è un disco sincero che sa trasmettere emozioni a chiunque abbia voglia di ascoltare testi e melodie con l’attenzione che meritano; testimonia uno spaccato di vita reale senza fronzoli, senza esagerazioni inutili e senza abbellimenti; rappresenta il culmine di una traiettoria artistica che qui giunge a completa maturazione adottando un sound nuovo senza snaturare la propria importante eredità.
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