Bring Me the Horizon, Amo, recensione

REVIEW: “Amo” by Bring Me the Horizon

di Agnese Tomasini

“Qualcosa di sperimentale, di più vario, che faccia da ponte tra That’s the Spirit e uno stile nuovo che ci permetta di spingerci oltre e fare qualcosa di diverso.” Così Oli Sykes, frontman dei Bring Me the Horizon, descrive cosa possiamo aspettarci dal loro sesto album Amo.


Il tema centrale del disco è l’amore, ma non si tratta di un album “rose e fiori”: l’amore è infatti rappresentato nei suoi estremi, sia alti che bassi. “Ci sono pezzi in cui sbandiero quanto sono felice di essere innamorato, e altri che riguardano i momenti più bui e difficili legati alle relazioni,” racconta Oli, menzionando il suo recente divorzio dalla prima moglie Hannah Snowdon.

Il precedente album del quintetto di Sheffield, That’s the Spirit, ha rappresentato la produzione più pop del gruppo e ha segnato il suo ingresso nel mainstream, portando i Bring Me the Horizon a un pubblico più vasto e variegato che mai. Dal punto di vista del sound, la band punta a soddisfare i fan guadagnati di recente, pur facendo in modo che il disco rispecchi l’identità della band e le permetta di svilupparsi verso nuove inclinazioni e ispirazioni.

I singoli estratti dall’album a mio parere sono rappresentativi di quanto detto finora. Mantra e Wonderful Life, con riff di chitarra aggressivi, ritmi tirati e potenti, e l’aggiunta di strumenti elettronici e parti sintetizzate, sono tracce esemplari sia dell’estetica di Amo sia dell’eredità di That’s the Spirit, ricordando soprattutto i singoli Happy Song e Throne.

In Medicine e Mother Tongue si ritrova invece il lato più poppeggiante, che nella scorsa produzione si sentiva in Follow You e Drown: entrambi i pezzi sono molto orecchiabili, volutamente più leggeri rispetto al resto, e si prestano molto per i live. I due pezzi rappresentano peraltro due estremi: da una parte Medicine descrive una relazione tossica in cui si è accecati dall’amore al punto che non ci si rende conto delle ingiustizie subite. Dall’altra Mother Tongue è una canzone d’amore senza mezzi termini, che Oli dedica alla sua nuova moglie Alyssa, di origini portoghesi: “don’t say you love me, fala amo. Just let your heart speak up and I’ll know” sono le parole che il cantante usa per descrivere quanto sia stata immediata e profonda la loro unione, nonostante la barriera linguistica.

Nihilist Blues è il singolo pubblicato a ridosso dell’uscita dell’album. Il featuring con Grimes mi rende estremamente gasata e curiosa di sentire a cosa gli artisti hanno lavorato assieme. Si tratta di una traccia atipica, prevalentemente elettronica, descritta dal tastierista Jordan Fish come una “dark rave song”, che nel complesso ricorda molto la vibe di Doomed. È difficile pensare che il contributo di un artista e produttrice a 360° come Grimes si sia limitato ai vocals, e già dopo pochi ascolti apprezzo del tutto il pezzo: tra i synth, le parti di batteria elettronica e i ritornelli esplosivi, sono pronta per il rave.

Novità di Amo sono gli interludes come Ouch e Fresh Bruises che fanno da ponte tra i brani, ma hanno anche una propria entità a sé. Ouch è esattamente ciò di cui avevo inconsciamente bisogno su questo disco: un brano di poco meno di 2 minuti, un perfetto showcase per le parti di percussioni e di batteria acustica, uno degli elementi più belli e che meglio definiscono il sound recente della band. “Ouch” è inoltre esattamente la reazione che suscitano i lyrics: Oli riprende parti del testo di Follow You, dedicata a Hannah. “I know I said I was under your spell / But this hex is on another level / I know I said you could drag me through hell / But I hoped you wouldn’t fuck the devil.” I Apologise If You Feel Something mi riporta invece al concerto di novembre al Forum di Assago in un flash: la traccia era stata usata come intro del set prima di Mantra, mentre sullo sfondo del palco appariva pezzo per pezzo l’esagramma composto da luci al neon.

A rotazione troviamo altre 4 tracce. In the Dark è descritta da Fisher come una “dark pop song”, e si mantiene molto sulla vibe di Medicine; Sugar Honey Ice & Tea ricorda un po’ per la struttura Blasphemy, una delle canzoni top di That’s the Spirit. Why You Gotta Kick Me When I’m Down? è dove i Bring Me the Horizon e la trap si incontrano: il risultato è un connubio molto interessante tra parti elettroniche e voci campionate, e le parti di batteria acustica con i vocals urlati di Oli.

Heavy Metal è un brano decisamente degno di nota: il pezzo è curioso sia musicalmente sia per il testo. Quante volte avete sentito fan dei BMTH lamentarsi del fatto che la band abbia cambiato sound? Questa canzone è la loro risposta, dello stile “I care, but I don’t”: “I’m afraid you don’t love me anymore / Cos some kid on the gram said he used to be a fan but this shit ain’t heavy metal.” Interessante il featuring con il beatboxer e beatmaker statunitense Rahzel, che anche in questa traccia costituisce l’elemento di novità e il crossover di generi.

I Don’t Know What to Say, la closing track, è un pezzo che parla di un amico di Oli, recentemente morto di cancro. La trama strumentale è arricchita da sezioni di archi; i Bring Me the Horizon, non nuovi a questa scelta, regalano ancora una volta un risultato dall’estetica unica e molto ben definita. Unica pecca l’assolo di chitarra, a mio parere non molto funzionale.

In conclusione, ogni traccia dell’album porta qualcosa di interessante, e possiede una propria identità, facendo sì che già dai primi ascolti il disco si possa sentire dall’inizio alla fine senza mai annoiare. Certo, può piacere o non piacere, ma non si può affatto definire deludente: anche se dovesse presentare qualche scelta che non condividete, Amo ha tanto da dirvi, e porta in tanti posti nuovi e interessanti che potrebbero stupirvi.

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