Vista la line up particolarmente ricca, che prevedeva ben due 10 anniversary show, un po’ di reunion a caso e soprattutto un Andrew McMahon, non solo la gita di rito al festival più pop punk del Regno Unito è stata d’obbligo, ma è stato d’obbligo anche raddoppiarla. Eccoci qui dunque a parlarvi dello Slam Dunk Festival 2017. Prima Midlands e poi South.
SLAM DUNK MIDLANDS – 27 Maggio, Birmingham NEC
Il vero plot twist di questa stagione, è che per la prima volta siamo ricche e possiamo permetterci il lusso di prendere un taxi dall’ostello alla venue, svegliandoci a un’ora decente visto e considerato il nostro arrivo nella maestosa Birmingham alle 4.15 del mattino (c’era già l’alba, volevamo fare una foto e scriverci “buongiornissimo kaffèèè?” ma le finestre erano troppo sporche). In 5 persone la corsa in taxi è costata tipo 6£ a testa, w la ricchezza.
Essendo abituate alla venue di Hatfield che è tipo un campus universitario, ci aspettavamo seiseisei ore di attesa tra wristband exchange e ingresso al festival. Invece no, perché il NEC è una venue vera e quindi è più organizzata per un evento di tale portata. E c’era anche un botto di roba da mangiare tipo i falafel che han fatto sold out e i nachos.
ANDREW MCMAHON IN THE WILDERNESS (Jagermeister Stage)- Chiara
Il motivo principale che mi ha spinta a portare, anche quest’anno, il mio didietro allo Slam Dunk (nonostante i miei continui “No ma quest’anno è l’ultimo Slam Dunk”) si chiama Andrew McMahon In The Wilderness (in the wilderness ovviamente non fa parte del cognome, sarebbe un casino firmare i moduli per le cose burocratiche). Una volta arrivate davanti al palco (enorme rispetto al solito, tipo che ci ha suonato Elton John) notiamo con piacere che l’età media dei presenti è circa la nostra. Dopo qualche canzone messa a caso, ecco apparire sul palco Andrew McMahon, e già i feels sono alle stelle (nonostante sia la quinta volta che lo vediamo). Subito dopo di lui compare un singolare individuo con barba lunghissima, occhiali sa sole e capello di paglia che sembra uscito da uno stereotipo sul sud degli stati uniti. Il set parte con “Fire Escape”, dall’ultimo album “Zombies on Broadway” e prosegue con i brani cardine della sua carriera da solista – Canyon Moon, Walking in My Sleep, So Close e High Dive – intervallati da un paio di vecchie glorie/momenti nostalgia: Dark Blue dei Jack’s Mannequin e I Woke Up In A Car dei Something Corporate. Inutile dire che il concerto è stato perfetto. La canzone di chiusura non poteva che essere “Cecilia and the Satellite”. Le lacrime sono state copiose. Nota di apprezzamento: Zac Clark ha reso la performance ancora migliore.
FORT HOPE (The Key Club Stage) – Alessandro
I Fort Hope hanno aperto la mia giornata al mio primo Slam Dunk. In realtà sono andato a sentirli più per curiosità che per reale interesse, dato che ho ascoltato un paio di loro EP qualche giorno prima dell’evento giusto per avere qualcuno da andare a sentire nella prima fascia oraria. La band ha almeno un paio di canzoni con ritornelli supercatchy, che poi sono anche le canzoni con cui hanno aperto la setlist. Fra le altre tracce in scaletta anche la nuova “People of the Lake”, che anticipa l’uscita dell’album d’esordio “The Flood Flowers” (16 giugno). La performance, e soprattutto la voce di Jon, è stata tecnicamente impeccabile, forse anche un po’ troppo dato che sembrava di sentire una band in studio più che una band dal vivo e questo toglieva qualcosa al “bello della diretta”, ma va dato atto al gruppo di averci messo tutto l’impegno.
THE ATARIS (Fireball Stage) – Chiara
Gli Ataris sono una di quelle band che abbiamo visto un sacco di volte, ma mai così da lontano. Di solito siamo lì a fare da maschera a Kris, a versargli la Coca Zero…è uno di famiglia ormai. Invece questa volta la situa è che il Fireball Stage è un festival a sé, pieno di punk prima di noi pronti a passare l’intero Slam Dunk davanti a quel palco. Quindi quando siamo arrivate c’era già un sacco di gente e siamo rimaste abbastanza indietro (anche perché avevo già mal di schiena e non ce la facevo a essere true punk). Come sempre Kris Roe ci mette secoli per farsi andare bene i suoni, ma appena partono le note di “In This Diary”, la folla inizia a scatenarsi. Il set dura circa 40 minuti e la band snocciola un po’ di brani tratti da So Long, Astoria e poi “Your Boyfriend Sucks” con i suoi rinnovati 10 minuti di outro che potevamo evitarceli questa volta visto che il set era già corto. E ancora San Dimas High School Football Rules, la cover di Boxcar dei Jawbreaker (di cui continuate a non sapere le parole, punk prima di noi dove?) e infine “So Long, Astoria”, che, nonostante tutto, in fondo, è la nostra preferita. Gli Ataris sono sempre gli Ataris, però dobbiamo ammettere che la performance non è stata delle migliori (suoni terribili, soprattutto quelli del basso con gli alti al massimo che è un ossimoro dai, vai a fare il fonico punk da un’altra parte). Grande assente: il ventilatore che era rotto.
TROPHY EYES (Monster Energy Stage) – Alessandro
I Trophy Eyes erano senza dubbio la band che aspettavo con più ansia dell’intera giornata, non avendoli mai visti dal vivo. Per essere sicuri di riuscire ad entrare nell’area dove suonavano siamo arrivati sotto al palco con mezz’ora d’anticipo (in realtà potevamo prendercela più comoda), ma così facendo siamo riusciti a guadagnarci un posto in prima fila. Il tempo ci ha graziati e le due gocce di pioggia che cadevano prima del set non si sono trasformate in un acquazzone. I Trophy Eyes hanno aperto con la bellissima “Nose Bleed”, seguita dalla più rilassata “Breathe You In”. La voce di John si sentiva poco, ma poi i problemi di audio sono stati risolti e la band ha tirato fuori una gran bella prestazione, aiutata anche dal pubblico che era particolarmente scatenato per la gioia della security sotto il palco. Tra una Counting Sheep e una Chlorine, i Trophy Eyes hanno suonato praticamente solo le canzoni del nuovo album “Chemical Miracle“ –giustamente, direi– concedendo solo Bandaid dai lavori precedenti. Concludere con “Daydreamer” non poteva che essere la scelta più logica. Promossi in pieno, uno dei migliori set della giornata, anche se sbaraccare tutto il merch alle sette di sera non è carino e non si fa.
MILK TEETH (Signature Stage) – Sara
A me il set dei Trophy Eyes non è piaciuto quanto ad Ale, quindi mi ritrovo un po’ triste a cercare gioia altrove, e la trovo al Signature Stage con i Milk Teeth, una delle pochissime band con voce femminile che non mi provocano fastidio e ribrezzo e arrivo giusta giusta per l’inizio del loro set. Le condizioni meteorologiche hanno visto il loro momento peggiore della giornata, con una pioggia abbastanza cospicua, mentre Becky (che indossava la maglia gialla di Primark con scritto Trouble Maker che anche noi cape abbiamo comprato come divisa ufficiale di aim) e i suoi compagni di merende divoravano il palco ed esaltavano la folla, perché avete capito bene, di folla si trattava: un sacco di gente era lì a vedere questi giovani che fanno il grunge. E lo sanno fare così bene il grunge che per tutta la durata del set ho potuto vedere Frank Iero felice e divertito a osservarli dal lato palco. Nella loro setlist possiamo trovare pezzi vecchi come No Fun e “Vitamins” in chiusura, ma poi perlopiù canzoni dall’album “Vile Child”, come ovviamente i singoli Brickwood, Brain Food, Kabuki e “Swear Jar”, quest’ultima introdotta da un pezzo di All Star degli Smash Mouth, delirio. Da registrare anche la prima volta live per un nuovo pezzo uscito poco tempo fa, “Owning Your Okayness”. Tra una canzone e l’altra troviamo Oli in piedi sulla batteria che urla, Billy e Becky che si alternano a intrattenere la folla, mentre il povero Chris, che è senza un microfono, continua a chiedere ai compagni di band di dire al pubblico di fare più casino e di moshare di più, nonostante la gente non si stesse esattamente trattenendo. Anzi, di casino ce n’è stato eccome, così come di circle pit, guidati da un gruppo formato da 5 persone vestite da Pikachu. Billy ha sentito l’appello del povero Chris solo prima dell’ultima canzone e l’ha finalmente accontentato, un lieto fine c’è per tutti nella storia di questo set. Bravissimi Milk Teeth.
GRUMBLE BEE (Uprawr Stage) – Chelli
Questo Slam Dunk non è stato magnanimo con me per quanto riguarda i clashes: nella prima fascia (1.25-2.05) hanno suonato contemporaneamente 3 delle band che volevo vedere. Nella fascia 3.10-3.40 invece non c’era nulla di particolarmente interessante. Come succede ogni anno, finisco inevitabilmente sotto al palco acustico, e a questo giro mi aspetta Grumble Bee, progetto solista di Jack Bennet, un tipetto carino col cappellino che suona con chitarra e tastiere un alternative rock tipo City & Colour ma anche un po’ tipo Brand New. Io lo conoscevo di sfuggita perché mi appare a caso nei daily mix di Spotify. Il tempo stava cambiando e stava iniziando a piovere, ma la sua voce teneva al riparo da tutto, e mi è piaciuta ancora di più che sentirla registrata. Ho riconosciuto “Heron” nella sua piano version in cui i feels non si sono risparmiati. Bellissimo voto 10.
VUKOVI (Rock Sound Stage) – Alessandro
I Vukovi sono la sorpresa della giornata. A quanto pare li conoscevamo soltanto io e una quarantina di altri inglesi, infatti suonavano al minuscolo Rock Sound Stage per le band emergenti, ma hanno fatto molto meglio di altre band presenti su palchi ben più importanti. Il loro album d’esordio self-titled è uscito a marzo per LAB Records e può piacere a tutti quelli che apprezzano le band con voce femminile e melodie orecchiabili ma non sdolcinate o troppo pop. Anzi, la performance è stata decisamente rock, sia per i volumi un po’ troppo alti, sia per la cantante Janine che ha passato tutto il set a dimenarsi sul palco, ha interagito costantemente con i fan (un paio di loro ora hanno probabilmente un suo selfie col dito medio sul telefono), esibito una notevole scottatura sulla schiena e cantato come un angelo. Non fosse stato per gli headliner del festival (più avanti ne parleremo), direi che i Vukovi hanno tirato fuori il set del giorno.
ZEBRAHEAD (Fireball Stage) – Chiara
Siccome il Fireball Stage è rimasto nel nostro cuore, ci ritorniamo per vedere (sempre per la trecentesima volta) gli Zebrahead. Grandi problemi iniziali coi suoni, che ritardano un po’ la performance. Anche loro li ho visti da troppo lontano rispetto al solito, ma i punk prima di me mi incutevano timore. Si parte con “Save Your Breath” e si prosegue con grandi hit (se così si possono definire) come Hell Yeah!, Call Your Friends, Mike Dexter is a God eccetera (lo sapete come si intitola, mi rifiuto di scrivere tutto il titolo) ed Hello Tomorrow. Ovviamente immancabile i siparietto di “drink drink *nome del posto in cui si trovano gli Zebrahead*” con cose casuali sul palco. Importante notare che a un certo punto ci siamo fatte delle foto istantanee e un tatuaggio “temporaneo”. Questo per dirvi quanto era figo il Fireball Stage. A chiudere il set ci pensa “Anthem” e tutti iniziano a ballare. Grande presente (assolutamente non richiesta): la maglietta di Ali.
BOSTON MANOR (The Key Club Stage) – Chelli
Migliori candidati al titolo di “nuovi Seaway della mia vita” (più sotto i dettaglia), l’universo ha voluto che vedessi i Boston Manor solo per 3 pezzi: “Lead Feet”, “Shade” e “Cu”. Poi siamo fuggite dai Cute, ma Chiara ha detto che non li aveva mai sentiti ma le sono piaciuti quindi hanno funzionato no?
CUTE IS WHAT WE AIM FOR (Monster Stage) – Sara
Dopo 10 anni il sogno si avvera. Il 2017 è davvero il ritorno del 2007 e del neon pop e quello che sto per raccontare ne è l’ennesima dimostrazione. Al primo annuncio della line up dello Slam Dunk ero incredula nel leggere Cute Is What We Aim For sul flyer e mi ci è voluto un sacco di tempo a processare la cosa; è vero che da qualche anno hanno ricominciato a riapparire qua e la, far uscire vecchi bside ecc, ma riuscire a vederli era per me una cosa impensabile. Quando una band che ti ha segnato l’adolescenza che davi per finita e persa per sempre torna, torna anche tutto il disagio. I Cute Is What We Aim For salgono sul Monster Stage mentre sole e pioggerellina si alternano fastidiosamente, la band è
riunita per ¾, infatti dei membri originale manca solo il bassista. La setlist è semplice: tutto Same Old Blood Rush With A New Touch, il loro primo album. Tutto o quasi visto la mancanza IMPERDONABILE di Lyrical Lies. Dopo qualche canzone Shaant visibilmente emozionato inizia a ringraziare il pubblico e finisce per piangere. L’esibizione è lontana dalla perfezione, ovviamente il lungo periodo di pausa si fa sentire e qualche meccanismo sul palco è ancora un bel po’ arrugginito, ma nulla di tragico visto che comunque ci regalano l’illusione di esser tornati giovani e feels a palate. Quando avevo raccontato il loro reunion show (al quale ovviamente non ero andata, l’avevo seguito online) avevo detto “questi ragazzi ci hanno riportato al 2007, quando tutti eravamo più felici e tutto era più bello, ma alla fine dentro di noi il 2007 non finirà mai” e anche questa volta, nonostante la performance non ottima, è successo.
WITH CONFIDENCE (The Key Club Stage) – Chelli
Non so se vi ricordate che allo scorso Slam Dunk avevo visto i With Confidence più o meno a caso sull’inculatissimo palco degli emergenti alle 2 del pomeriggio e ne sono rimasta così colpita da aver rotto il cazzo a tutti fino a convincerli che Voldemort era la canzone dell’estate. Quest’anno è cambiato che sono quasi le 5.30 e che il palco è molto più comodo da raggiungere ma le mie impressioni sono sempre quelle: sono fatti per stare sul palco. L’intensa esperienza live dell’ultimo anno ha sicuramente giovato alle loro dinamiche interne; ora non è più solo Jayden a dominare il palco – pur continuando ad essere la quintessenza del frontman – ma anche i due chitarristi intervengono dando intensità alla performance. Inigo sta lì a fare lo splendido mentre Luke fa il mattacchione come Tom Delonge quando non aveva solo pappa spaziale nel cervello. La setlist è una versione ridotta di quella che avevano proposto a Milano – dopotutto non è che si possa variare molto con solo un album e un EP alle spalle: “Voldemort”, “Archers”, “Dinner Bell” e “Higher” dal debut album Better Weather, “Godzilla” con il suo consueto circle pit e “London Lights” per i fan di vecchia data. Una cosa che mi ha piacevolmente colpita era la forte presenza maschile tra il pubblico che mi ha ridato speranze sulla giusta collocazione della band nel panorama musicale. Si chiude con Keeper e con un circle pit che doveva essere il più grande di tutti e invece è finito in tragedia con un divertentissimo domino effect.
TURNOVER (Signature Brew Stage) – Alessandro
I Turnover sono una delle mie band preferite e li vedevo per la seconda volta dopo il bellissimo concerto dello scorso ottobre al Ligera. Anche stavolta riusciamo a farci strada fino alla prima fila, ma ci accorgiamo subito di un paio di cose che non vanno: intanto tutti i membri hanno cambiato faccia (tipo il cantante si è rasato completamente la barba e non sembra più Gesù Cristo), e soprattutto appena prima del loro set è uscito il sole. Ora, normalmente l’uscita del sole ad un festival all’aperto dovrebbe essere una grande notizia; però se avete presente le canzoni dei Turnover, insomma, diciamo che il sole non è esattamente la prima cosa che viene in mente ascoltandole o a cui si assocerebbe un loro concerto. Se a questo aggiungiamo che per loro natura i Turnover cantano e suonano immobili e in quest’occasione si trovavano su un palco molto grande, si fa presto a capire come la loro performance sia sembrata un po’ off. Anche se poi non lo è stata, perché in realtà tecnicamente hanno suonato molto meglio che al Ligera e l’acustica era mille volte migliore, ma i Turnover si gustano molto di più in un piccolo concerto al chiuso che su un palco all’aperto ad un festival. Ad ogni modo, mi ha fatto piacere rivederli e la scaletta conteneva tutte le loro canzoni migliori, da Dizzy on the Comedown a Cutting My Fingers Off a Like Slow Disappearing, quindi in fondo promossi anche i Turnover, e spero di rivederli presto in un ambiente più consono.
THE MAINE (Monster Stage) – Sara
Non ve lo nascondo, il motivo principale per cui quest’anno mi sono ritrovata ad andare a ben due Slam Dunk sono questi signori qui. Il set si apre con “Black Butterflies and Dejà Vu”, tratta dal loro ultimo album “Lovely Little Lonely” uscito ad aprile, purtroppo la voce di John non si è sentita per tutta la canzone. Oltre ai problemi di volumi, si sono aggiunti anche problemi tipo che i The Maine si divertono a sprecare un sacco di tempo in cose inutili, ad esempio facendo durare My Heroine 10 minuti per far cantare lalala al pubblico, che okay bellissimo il coinvolgimento e tutto, ma in quel tempo avrebbero fatto in tempo a suonare altre due canzoni. Altro tempo perso su Girls Do What They Want, con l’ormai abituale divertente siparietto che vede la salita sul palco di un povero ragazzo (scelto appositamente perché annoiato dal set e presente perché probabilmente trascinato dalla fidanzata) che si ritrova a cantare il ritornello. Sul finale del set finalmente si sente tutto come si dovrebbe e troviamo altre due canzoni tratte dal nuovo album, Do You Remember? e “Bad Behavior”, che live sono belle come su disco, se non di più. Come sempre nonostante tutto i The Maine sul palco sono bravissimi e non son capaci di fare male, ma purtroppo il set arriva alla sua conclusione con “Another Night On Mars”, il singalong e la cascata di feels che sempre ne conseguono.
WATERPARKS (The Key Club Stage) – Chelli
Se un natural blue vende i suoi peli delle gambe su ebay per 15000$, puoi non andare a vederlo? La risposta vien da sé. Volevamo vederci un pezzo di The Maine e invece John O’ ci ha fatte arrabbiare e allora siamo andate a comprarci i nachos aggiudicandoci l’ultima porzione di Quorn (che non abbiamo ancora ben capito cosa sia ma di sicuro è veg). In questo modo ci siamo perse il brano di apertura dei Waterparks, cioè lo sentivamo ma malissimo. Mentre il resto l’abbiamo sentito/visto da svaccate sulla moquette come sottofondo alla nostra cena romantica. Tipo che tutti passavano e ci guardavano un po’ schifate da come cantavamo “Crave” con la bocca piena. Però cosa vuoi, li stavo troppo crave-ando quei nachos. La band è migliorata molto rispetto allo scorso anno, molta più pulizia e precisione ma la stessa identica energia inesauribile. Il disco è molto bello e dal vivo rende ancora meglio. Highlight della performance: Awsten che grida “I’m sweating through my skin!” e da dove diavolo volevi sudare?
SEAWAY (The Key Club Stage) – Chelli
Nel 2015 volevo vedere i Seaway (sempre allo Slam Dunk) ma suonavano sul palco più scomodo del mondo e la sala era così apparentemente piena che non si poteva entrare. Quindi mi sono sentita un paio di canzoni da fuori, ma poi era un po’ una merda allora li avevo abbandonati per vedere i Goldfinger. Nel 2016 ero carichissima per i Seaway a Modena ma alla fine me li sono persa perché dovevo lavorare (e non mi hanno neanche pagata gli stronzi pezzi di merda bastardi). I Seaway clashavamo con il 10 year anniversary dei We The Kings, ci avrei dovuto pensare almeno dieci secondi ma no perché i Seaway sono i miei prefe tra le band pop punk di oggi e – come direbbe Sara – “io me li merito”. Ecco quindi che dopo 3 anni di tentativi falliti, faccio in modo di arrivare in anticipo per il loro set, regalo tutti i miei averi a Chiara e mi lancio nella mischia come se avessi ancora 16 anni non appena sento le note di “Best Mistake”. Dall’occhio del ciclone non è che lo riesci a capire tanto se un gruppo sta suonando bene o no, ma i miei colleghi adulti mi riferiscono di sì. Quello che posso dirvi per certo è che l’esibizione è stata appassionata e divertente, con Ryan Locke vestito da gelataio che si sdraia sul pubblico e cose così, e una setlist pressoché perfetta nel suo mix di brani vecchi e nuovi tra cui “Shy Guys”, “Trick (so Sweet)”, “Your Bestfriend” e il finale della madonna con “Airhead”. Ne è valsa la pena aspettare? Sì, ma comunque mi mangio le mani per essermeli persa a Modena (o per lo meno voglio i miei soldi).
SET IT OFF (The Key Club Stage) – Chelli
Ho sempre pensato che i Set It Off suonassero molto bene e fossero degli ottimi performer, però non mi piacevano perché quella storia della dark rock opera mi è sempre stata un po’ sul cazzo. Poi succede che esce Upside Down ed è proprio la cosa megaposi di cui avevo bisogno. L’azzurro e il bianco mi piacciono e il tutto mi ricorda un po’ millennium dei Backstreet Boys, quindi decido di smezzare tra loro e i Movielife sperando di sentirmi un po’ di pezzi nuovi prima di andare a fare la punk da un’altra parte. Partono con “Why Worry” che è di Duality ma la conoscevo e mi andava anche bene, nonostante ci sia sempre quella roba lì dell’opera rock. Vedo Cody Carson con un braccio blu e disapprovo. La sua voce invece è indisapprovabile. Dopo questa fanno altri due pezzi vecchi e mannaggia a voi me ne vado perché Movielife. Ovviamente le canzoni che volevo sentire tipo “Upside Down”, “Something New” e “Life Afraid” le hanno fatte a fine set. Che vita di merda.
THE MOVIELIFE (Monster Energy Stage) – Chelli
I Movielife sono la band di Vinnie Caruana e io già ho paccato I Am the Avalanche per i clashes. I Movielife hanno fatto uno dei dischi più belli di sempre cioè Forty Hour Train Back to Penn poco prima di sciogliersi per sempre. Bè, a quanto pare non per sempre perché dopo la delusione dei Set It Off arrivo camminando tranquilla su “Once in A Row”, mi avvicino al palco e vengo assalita da Kelly’s Song (che in quanto canzone di Kelly è mia) e sale la voglia di rotolarsi giù dalle colline perché i feels sono troppi. Vado a sedermi sulla plastica che copre l’erba (perché il bello del monster stage è che ti puoi sedere e che c’è un megaschermo e quindi posso vedere meglio di come vedrei da sotto al palco dietro le spalle di un alto, e sì, evidentemente c’è una regola non scritta per cui se vuoi essere fan dei Movielife devi superare il metro e ottanta). Gli highlight sono “Hey”, “Hand Granade” e “Ship It to Shore”. Vinnie ha una camicia gialla a quadretti e parla tantissimo sul palco, fa un sacco di battute idiote e sembra un comedian, mi fa spaccare sto troppo bene e vorrei non finisse mai. E invece finisce con “Jamestown” e lo eleggo il set più bello di tutto lo Slam Dunk. Come se il 2003 fosse l’altro ieri.
MADINA LAKE (Impericon Stage) – tutti insieme appassionatamente
Un altro grande ritorno di questo Slam Dunk è quello dei Madina Lake, capitanati dai gemelli Leone, dopo la pausa del 2013. L’inizio del set è un po’ faticoso per la voce di Nathan, ma dopo qualche minuto si scalda e tutto prende una piega migliore. Ovviamente suonano i loro pezzi migliori e ne hanno molti da attingere tra la vasta discografia: “Never Take Us Alive”, “House Of Cards”, “Now or Never”, “Let’s Get Outta Here”, “Pandora”. Più il set va avanti, più si fa convincente la performance, e migliorano anche i tentativi di crowdsurfing di Nathan, dopo il primo rovinoso che gli ha fatto rischiare l’invalidità: Nathan sei il gemello tutto intero, non fare danni! Il tutto prende una piega particolare quando la band propone una cover importante per il luogo, ovvero “Song 2” dei Blur che è sicuramente stata apprezzata anche da quelli che preferiscono gli Oasis. A questo punto la band ha ingranato e siamo sicure che abbiano fatto ancora meglio nei due giorni successivi, ma dopo l’ultima “Here I Stand” ci sentiamo solo di dire “bravi!”
NECK DEEP (Monster Energy Stage) – Sara
Unica cosa importante del set dei Neck Deep: TABLES TURNED
Con largo anticipo mentre il sole tramonta mi dirigo di nuovo verso il Monster Stage per assicurarmi un posto dignitoso da cui vedere i Neck Deep. L’area immensa del palco si riempie velocemente e un mare di gente è pronto per vederli salire sul palco. Il set si apre con la nuovissima “Happy Judgement Day”, che nonostante io non l’abbia molto apprezzata da quando è uscita, risulta molto più convincente live. Si prosegue con praticamente quasi tutte le canzoni di Life’s Not Out To Get You (l’unica canzone di quell’album che non hanno suonato è I Hope This Comes Back To Haunt You, la mia preferita ovviamente), Losing Teeth e Crushing Grief da Wishful Thinking, tutto fila liscio fino a quando a un certo punto Ben dice che si tornerà indietro nel tempo e io penso ‘sarà il momento di What Did You Expect?’, e invece no, perché chiede chi ricorda un EP chiamato A History Of Bad Decisions, al che io perdo il lume della ragione perché capisco che è rientrata finalmente in setlist LA canzone, Tables Turned e mi ritrovo sotto il palco a cercare di sopravvivere. Neanche il tempo di rifiatare che Fil slappa il basso e ripartono con “Rock Bottom”, finita quella luci spente e parte l’intro di Kali Ma, poi l’altra nuova canzone, Where Do We Go When We Go, tutti singalongano ‘pain pain go away, come back another day’ (che è anche la parte di canzone che io detesto ma fa niente); una canzone dopo l’altra a mitragliatrice, poche parole, poche pause, tanti pezzi tutti fatti bene, e infatti anche loro sottolineano anche che è il set più lungo che abbiano mai fatto, ma la stanchezza non si fa sentire e quindi via di nuovo con What Did You Expect?. Arriva il momento in cui decido di spostarmi verso il fondo, anche perché sento le prime note di A Part Of Me, che purtroppo è rientrata in setlist dopo che eravamo finalmente riusciti a liberarcene durante i tour con gli A Day To Remember. Dopo December arriva il momento di salutarsi e chiudere quello che è uno dei migliori show dei Neck Deep che io abbia mai visto con quella che Fil introduce come la loro canzone più bella, Can’t Kick Up The Roots.
ENTER SHIKARI (Jagermeister Stage) – Alessandro
Sugli Enter Shikari ormai c’è poco da dire. Sono una delle migliori live band in circolazione nella scena, e l’hanno dimostrato anche alcune settimane fa quando hanno portato a Milano il loro tour per il decennale di Take to the Skies. Qui allo Slam Dunk, di cui erano gli headliner e suonavano quindi nell’immensa Genting Arena (strapiena per loro), facevano lo stesso concerto con una setlist quasi uguale, ma questo non mi ha impedito di godermi la loro performance come se fosse la prima volta, grazie all’energia, agli effetti speciali e alla tecnica che la band sa sempre portare sul palco. Oltre ovviamente a tutte le canzoni di TTTS, gli Shikari ci hanno regalato The Last Garrison, Anaesthetist e The Appeal & The Mindsweep II dal loro ultimo album, più il nuovo singolo Redshift e il classicone Juggernauts, anche se il momento più toccante della serata è stato l’invito a votare Jeremy Corbyn alle prossime elezioni e mandare a quel paese i conservatori di Theresa May. No, scherzavo, il momento più toccante è stato la dedica alle vittime dell’attentato di Manchester avvenuto pochi giorni prima del festival, con la cover di Half the World Away degli Oasis, preceduta da un bel discorso sul ruolo importante che gioca la musica nell’unire le persone di qualsiasi Paese, fede o credo politico e renderci tutti più forti e capaci di resistere a chi cerca di sottrarci col terrore la passione che ci lega: “live music is probably the only thing still around that brings us all together indiscriminantly worldwide. So if they, whoever they are, want to pick a fight with live music, they are always going to lose.” L’importanza di una band come gli Enter Shikari si misura anche dalla capacità di mettere sé stessa e la propria musica in relazione con gli eventi e le tematiche cruciali del nostro tempo e farlo con intelligenza lasciando un impatto sui propri fan. Nota di demerito invece per i molti inglesi ubriachi che si muovevano in modo molesto e facevano di tutto per disturbare quanta più gente possibile nelle vicinanze. Poi mi spiegate cosa vi ricordate del concerto se siete talmente sbronzi che fate fatica a reggervi in piedi. C’è il bar di fianco all’arena; andate lì, no? A parte questo, gli Shikari sono una spanna sopra tutti e si portano a casa la performance della giornata. Difficile pensare a una scelta più azzeccata per l’headliner dell’evento. Ora tornare presto in Italia però.
BOWLING FOR SOUP (Fireball Stage) – Chelli
Inevitabilmente arriva quel momento della giornata in cui la vecchiaia si fa sentire e allora ti siedi in terra al Fireball Stage che ormai è sinonimo di casa e sai che quando sei lì non ti può succedere niente di brutto; le canzoni durante il cambio palco ti sembra di averle scelte tu stessa, e il profumo di panini ti fa domandare se hai mangiato abbastanza. Pensi di non volerti mai più alzare in piedi e invece salgono sul palco i Bowling For Soup che erano già più vecchi di te adesso quando li ascoltavi su MTV che avevi 14 anni e allora un po’ ti senti in dovere di alzarti e andare là davanti. Vedi Jaret un po’ troppo fuori forma e pensi “che cazzo si è mangiato?” e la risposta è tutti i palchi su cui ha suonato perché la performance è davvero da far invidia. Si va oltre il saper suonare, si parla proprio di saper mettere su uno show che soddisfa tutti in tutti i sensi: buona musica, i pezzi più forti della propria carriera tipo “Ohio”, “Emily”, “High School Never Ends”, qualche joke song inaspettata tipo la sigla di Phineas e Pherb, la cover di Stacy’s Mum che fa ridere sempre, tanto coinvolgimento, dialogo col pubblico, battute tipiche ma non scontate tipo “il mio colore preferito è il marrone perché non lo sceglie nessuno” o “se quello vicino a voi non ha le mani alzate vuol dire che ha l’herpes, è un sintomo!”, e anche qualche discorso semiserio tipo sul recente fattaccio di Manchester (la band si è tatuata l’apina, chapeau). Insomma anche se sei stanco e l’unica cosa che desideri davvero è il tuo letto, con i Bowling For Soup stai bene lo stesso e lasci il festival felicissimo canticchiandoti “1985” consapevole che non riuscirai mai più a levartela dalla testa.