“Cheaper Than Therapy” by Baggage

di Michela Rognonibaggage

Dopo lo scioglimento dei The Swellers lo scorso anno siamo stati tutti male ma evidentemente non siamo stati gli unici a star male. Che incipit di merda.
I Bagagge sono la nuova band di Jonathan Diener, ex-batterista dei The Swellers, che scende dallo sgabellino, imbraccia un basso e mi mette al centro, dietro ad un microfono e poi chiede ad un paio di amici di unirsi a lui per “ricominciare a suonare per divertimento”.
L’EP della band, “Cheaper Than Therapy” esce il 18 Dicembre, lo si può trovare su bancamp come pay-what-you-want, e tutti i ricavati andranno a favore del loro amico Ron Luczak, la cui casa è stata distrutta da un incendio doloso, ordinaria amministrazione a quanto pare nella loro hometown Flint, Michigan.
La casa in questione è quella che appare sull’artwork del disco ed il titolo spiega chiaramente ciò che la scrittura di queste canzoni è stata per Jonathan: un modo per auto-guarirsi dai propri problemi psicologici, per andare avanti dopo lo scioglimento della band, per riacquistare fiducia in se stessi e la voglia di fare.

Il solito disco catartico insomma, se non fosse che non è per niente il solito disco.

Il confronto con i The Swellers sembra inevitabile ma io lo eviterò perché ACAB.

Si parte con “Flint” che come si evince dal nome parla di Flint, e come vi ho un po’ spoilerato nell’intro, non ne parla molto bene.
Si prosegue con “Safety Net” in cui l’autore capisce di dover pensare a se stesso ed al proprio benessere invece che a cambiare il mondo. è proprio lei a contenere la frase chiave di tutto il lavoro: “It’s the way you deal with it”.
Parole realiste ed incoraggianti.
“Twenty-Something” parla delle responsabilità che si acquisiscono con l’avanzare dell’età, tipo il dover dare brutte notizie e cose del genere. Quando è uscita come “singolo”, Diener aveva dichiarato che la canzone riguarda i suoi genitori ed il fatto che “cominci a capire che anche se sono i tuoi genitori sono uguali a tutti noi; siamo tutti vulnerabili.”
Poi arriva “The Biggest Bar Night Of The Year”, irriverente inno al lasciarsi al passato alle spalle: “But I hope you’re doing well/ Oh wait, I still don’t care/ It’s my transition year/ Get away from me”.
E si chiude con la titletrack che tira le somme di tutto questo.

I suoni sono moderni; pieni ma crudi, grazie anche all’accurata produzione di Marc Hudson.
Le melodie sono complesse ed efficaci e fanno a pugni con i riff catchy, spiazzanti e con quella dose giusta di emo.

Disco interessante sia dal punto di vista musicale che da quello del significato; un ottimo punto di partenza (o meglio di re-start).

4/5

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