Di Michela Rognoni e Chiara Cislaghi
“Poetry begins to atrophy when it gets too far from music.”.
È una verità universalmente riconosciuta che ad Andrew McMahon piace un sacco cambiare nome a caso. Infatti, l’ultimo capitolo della sua discografia è un selftitled pubblicato sotto lo pseudonimo “Andrew McMahon In The Wilderness” (dove la “wilderness” simboleggia l’inizio di una nuova vita).
Il disco si presenta sicuramente molto diverso da tutti i lavori precedenti anche se le “piano driven melodies” tornano ad essere protagoniste indiscusse seppur affiancate dai nemici del rock, i synth (in modo meno massiccio rispetto all’ep immediatamente precedente “The Pop Underground”. Che poi era comunque bello, perché Andrew è un po’ come Re Mida che trasforma in oro tutto quello che tocca quindi anche i rigurgiti se registrati da lui risulterebbero armoniosi). Tutto ciò permette all’emozione di insinuarsi nelle canzoni che fanno viaggiare chi ascolta in una specie di storia che pur essendo quella personale dell’autore riesce a staccarsi da esse diventando quella di tutti noi.
Ad aprire le danze c’è “Canyon Moon” (scritta con Kevin Griffin dei “Better Than Ezra” e con Sam Hollander) che fa parte della branca dei brani scritti durante il periodo passato in una sorta di ritiro spirituale a Topanga Canyon. La canzone racconta la storia di una ragazza persa in questo mondo ideale che prima o poi dovrà lasciare e rappresenta alla perfezione il tema della fuga e, allo stesso tempo, da’ al brano quel “real California flavor”. Allo stesso periodo di Topanga Canyon appartiene anche “Rainy Girl”, la nuova “Hammers and Strings” si potrebbe dire, dominata dal piano e dalla melting voice tipica delle ballate. Le strofe sono piuttosto vuole, poche note seguite da frasi brevi, il tutto si riempie nel ritornello esplodendo in un tripudio di emozioni. “See Her on the Weekend” è quella più esplicitamente personale. Parla infatti dell’attesa della nascita di Cecilia e della difficoltà dei contatti con la moglie che, però, sa che vedrà nel weekend (evidentemente la sua compagnia telefonica fa cagare quando si tratta di essere nel Topanga Canyon, cosa strana dato che in “Miss California” aveva una cell phone tower tutta sua).
Un’altra traccia degna di nota è di certo “Cecilia and the Satellite”, ovviamente dedicata alla figlia appena nata. è un brano allegro e dalle atmosfere onirche (ricorda un po’ lo stile di “Synesthesia”). Il rapporto figlia-padre musicista è ovviamente rappresentato con metafore “spaziali”, a cui siamo tutti abituati fin dai tempi dei SoCo. Il testo è un susseguirsi di cose carine che i nostri genitori non ci hanno mai detto.
“High dive” è assolutamente da citare perché contiene il concept alla base dell’album: “e se fosse andata diversamente?”.
“Flashbacks get me close, I’m almost there” e poi parte in quello che sembra essere il ritornello più singalong del disco, fatto di immagini semplici ed essenziali che riescono a farti immaginare di essere all’interno della scena descritta.
Ahimè, alcuni brani sono ancora troppo simili a delle sperimentazioni sull’uso dei Synth. Succede, ad esempio, nella traccia di chiusura “Maps for the Getaway” (secondo noi poi in scaletta se la confonde con “Globes and maps” e niente, il delirio. Poi gli tocca andare nelle camere del Travellodge, ma questa è un’altra storia) che ci pone davanti ad un’armonia forse un po’ troppo artefatta, come ai bei tempi di “Learn to Dance” (ovvero l’anno scorso, e non erano bei tempi).
“Andrew McMahon in the Wilderness” non è un disco piano rock, non è un disco pop punk, non è un disco pop o elettronico, ma è sicuramente la creazione che più si identifica con la personalità del suo autore. Suona in modo genuino, entusiasmante, sincero. Individuale ma fatto per essere condiviso con chiunque lo voglia apprezzare.
Voto: 5/5